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Trattamenti e soluzioni al problema del peso

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Il trattamento del sovrappeso è sempre una sfida sia per il medico che per il paziente; esso, infatti, pur basandosi su calcoli metabolici di relativa semplicità, costituisce tuttora un problema di ardua soluzione. Troppe, infatti sono le variabili che interferiscono e troppi i numerosi fattori che disturbano la realizzazione pratica delle più perfezionate strategie d’intervento. Gli insuccessi cui si va incontro nell’assistenza agli obesi, insuccessi già numericamente consistenti nella fase funzionale, diventano molto più numerosi nelle fasi di mantenimento in quanto una elevata percentuale di soggetti tende più o meno rapidamente a tornare al peso di partenza. Infatti, se è relativamente facile ottenere un decremento ponderale nei tempi programmati, risulta più difficile mantenere e stabilizzare il peso raggiunto. Ciò fa sì che un certo numero di soggetti che periodicamente si sottopongono a regimi dimagranti, presentino periodiche oscillazioni ponderali con minimi toccati durante l’osservanza di regimi calorici ristretti e massimi che si avvicinano più o meno al peso di partenza nei periodi intervallari. Queste variazioni cicliche della massa corporea hanno da tempo attirato l’attenzione dei clinici e dei nutrizionisti che le hanno attentamente studiate nella loro natura e nelle loro conseguenze sullo stato di salute e sulla morbilità individuale; il fenomeno è apparso di tale rilievo da fargli attribuire importanza e dignità di vera e propria sindrome cui si è attribuito il nome di “Weight cycling syndrome” e “sindorme yo-yo”. Si è visto, infatti, che la fluttuazione del peso interferisce sui livelli del dispendio energetico, sulla composizione corporea e sulla distribuzione del tessuto adiposo, sul rischio di mortalità per patologia cardiovascolare e sul comportamento alimentare. Questa fluttuazione indurrebbe infatti un aumento dell’efficienza motoria dell’organismo che fornirebbe uguali prestazioni con spesa energetica progressivamente più limitata; in altri termini sembrerebbe che l’organismo acquisti la capacità di mantenere il proprio peso con un minor numero di calorie o che, con le medesime calorie che in passato lo mantenevano in costanza di esso tenda progressivamente ad aumentare il peso stesso. Dati recenti sull’uomo avrebbero dimostrato che a ogni fluttuazione del peso la massa magra perduta nella fase di calo, nella fase di recupero viene ricostituita solo parzialmente e la rimanente differenza viene sostituita da tessuto adiposo; l’organismo cioè, a ogni fluttuazione del peso modificherebbe la propria composizione e diverrebbe ogni volta più grasso e quindi più ricco di tessuto metabolicamente inerte. Questo fenomeno offre anche un altro elemento di preoccupazione dal momento che il grasso destinato a prendere il posto dei tessuti magri perduti andrebbe a ridistribuirsi localizzandosi prevalentemente nella regione viscero-addominale. Secondo altre indagini la fluttuazione del peso sarebbe associata a un aumento del rischio di patologia e di mortalità cardiovascolare. In questo senso si è voluto calcolare che una diminuzione del peso del 10% riduce il rischio cardio-vascolare del 20%; ma quando tale 10% di peso viene recuperato, il rischio aumenta del 30% in modo che, anche una singola oscillazione del peso del 10% comporterebbe un aumento del rischio cardio-vascolare del 10%. Indagini condotte su alcuni indici di funzionalità cardiaca hanno dimostrato che questi sono peggiori in soggetti “obesi cycles” rispetto ad altri “non cycles” e naturalmente rispetto a quelli normopeso. Per tutti questi motivi qualcuno ha voluto definire l’obesità come una malattia “incurabile”. Se tale affermazione è da respingere sul piano etico, nonché su quello clinico, non v’è dubbio che, in forza della sua genesi spesso ereditaria, l’obesità, o la minaccia di essa, è una condizione alla quale molti soggetti non sfuggono e nei confronti della quale è necessario misurarsi per tutta l’esistenza. Alcuni autori hanno messo in evidenza la correlazione esistente fra la cellularità del tessuto adiposo e determinati quadri morbosi. Infatti i soggetti con obesità di tipo ipertrofico presentano soprattutto le complicanze metaboliche (insulino-resistenza, ridotta intolleranza glucidica, ipertrigliceridemia, ipercolesterolemia, iperuricemia), mentre quelli con obesità di tipo iperplastico raggiungono gradi più elevati di obesità e vanno incontro con maggiore frequenza alle complicanze d’organo o d’apparato alle quali si associano non di rado anche quelle metaboliche; ciò vale specialmente nel caso in cui la cellularità sia di tipo misto. Il rapporto tra cellularità e grado di obesità è chiaramente intuibile se si considera che la cellula adiposa non può superare certe dimensioni; ne deriva che un soggetto con un patrimonio di adipociti che non si discosti molto dalla norma può sviluppare solo un’obesità di gradi lieve e moderato, mentre è necessario un cospicuo aumento di numero delle cellule perché si abbia una grande obesità. Nel programmare una procedura volta alla riduzione del peso corporeo, è quindi utile definire, sia pure con una certa approssimazione, l’entità della riduzione che si vuole e che si può ottenere tenendo conto appunto che il tipo di obesità condiziona significativamente la risposta al trattamento dietetico e quindi delimita l’entità del calo ponderale ottenibile. Quest’ultimo, infatti, diviene sempre più consistente e prosegue sino al momento in cui gli adipociti raggiungono le loro dimensioni minime non ulteriormente riducibili. La probabilità di successo sarà quindi tanto maggiore, quanto minore sarà il numero degli adipociti e viceversa; un calo ponderale più marcato si avrà, pertanto, nelle forme ipertrofiche, mentre nelle forme iperplastiche esso sarà meno rilevante. I trattamenti chirurgici o parachirurgici possono portare a sensibili perdite di peso, ma poiché si tratta di interventi non privi di rischio, essi vanno limitati a quei casi di obesità grave o di 3° grado nei quali ogni intervento medico-nutrizionale ha fallito i suoi scopi e il controllo ponderale deve essere assolutamente ottenuto pena la sopravvivenza del soggetto. Essi si fondano sulla vera e propria ablazione cruenta del grasso sottocutaneo, o sulla realizzazione di un by-pass digiuno-ileale che riduce drasticamente l’assorbimento del chimo o, ancora, sulla gastroplastica riduttiva basata sulla creazione di una tasca gastrica che restringe la capacità del viscere; fondato sullo stesso principio di riduzione volumetrica è il metodo del palloncino, introdotto e poi gonfiato nello stomaco allo scopo di evitare o ridurre gli inconvenienti e i rischi collegati alla gastroplastica. Le due tecniche sono a volte associate facendole seguire una all’altra. Ma il cardine di ogni protocollo terapeutico dell’obesità è fondato sulla negatività del bilancio calorico ottenuto mediante la riduzione delle calorie ingerite con gli alimenti e il contemporaneo incremento delle calorie spese attraverso un adatto regime di attività fisica. La semplicità di questa formula non deve trarre in inganno poiché essa, facile da definire in termini teorici per ogni singolo individuo, è molto più difficile da mettere in pratica per la scarsa “compliance” dei soggetti alle severe limitazioni dietetiche e per la diffusa propensione degli stessi a sottrarsi a lavoro muscolare. Da sottolineare è anche il fatto che le privazioni alimentari, non solo quantitative ma anche qualitative, interferiscono con uno degli istinti fondamentali degli organismi viventi, quello di alimentarsi, così da provocare quadri ansioso-depressivi di non trascurabile gravità. Per ovviare alla scarsa aderenza dei soggetti alle limitazioni imposte dalla dieta e per dominare la sensazione di fame, si è fatto ricorso a interventi farmacologici di vario tipo: a) sostanze sazianti come l’acido alginico e la metilcellulosa che, inducendo un riempimento gastrico artificiale, dovrebbero eliminare l’appetito. Nella realtà gli effetti ottenibili con questo mezzo non si sono mai dimostrati utili e concreti dal momento che la sensazione di fame dipende solo e unicamente dallo stato i pienezza dello stomaco e dalla conseguente distensione addominale; b) sostanze riducenti l’assorbimento intestinale come la colestiramina, la neomicina e i bloccanti dell’á-amilasi; anche l’utilità di questi preparati è molto discutibile, non solo per gli incerti risultati che producono, ma anche per l’insorgenza di una grave steatorrea difficilmente sopportabile; c) ormoni il cui impiego è da sempre contrastato dalla maggior parte dei ricercatori. Tra essi ricordiamo: -l’ormone tiroideo che agisce mediante un’esaltazione del metabolismo basale e quindi del dispendio calorico; tra le numerose critiche rivolte a tale procedura, spicca quella secondo la quale la provenienza di queste calorie sarebbe peraltro di natura prevalentemente proteica andando perciò a intaccare la massa magra – in particolare la muscolatura – e risparmiando i depositi adiposi; a ciò aggiungasi la possibile insorgenza di ipertensione arteriosa, aritmie cardiache ipercinetiche, stati d’ansia e di agitazione; -l’ormone della crescita (GH) che stimola i fenomeni metabolici ed è capace di mobilizzare gli acidi grassi di deposito senza modificare il regolare bilancio azotato; d) farmaci anoressizzanti: le prime sostanze cui si è fatto ricorso per dominare il senso di fame sono state le anfetamine che, pur efficaci, espongono a tali sgradevoli e non innocui effetti collaterali (eccitabilità, tremori, cardioaritmie ipercinetiche, insonnia, farmaco-dipendenza) da non giustificare l’impiego. Persino le formulazioni di ultima generazione (fenfluramina e fluexetina) più facilmente mangiabili, conservano in loro misura i loro inconvenienti che ne sconsigliano l’uso prolungato e lo limitano a particolari e ben selezionati casi; da qualche fonte è stata addirittura segnalata la possibilità di insorgenza di farmacodipendenza; e) fibre alimentari come il glucomannano e il guar; f) ausili di interesse esclusivamente commerciale quali le caramelle o i chewing-gum medicati con benzocaina che, anestetizzando i recettori gustativi del cavo orale, dovrebbero sedare il senso di fame e placare il desiderio di cibo; g) diete ipocaloriche: è questo il trattamento di base maggiormente usato nell’eccedenza ponderale che sconfini o meno nell’obesità conclamata. Bisogna comunque ammettere, come ampiamente dimostrato dagli studi applicati alle statistiche antropometriche delle nostre popolazioni, che il trattamento dell’obesità risulta né facile, né semplice. Tuttavia, in questi ultimi anni, con il migliorare delle condizioni di vita e con la maggiore diffusione della cultura alimentare in ampi strati della popolazione, il problema delle patologie metaboliche e degenerative si è imposto all’attenzione di tutte le scuole, e notevoli progressi sono quindi stati realizzati.

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